lunedì 25 aprile 2011

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Il tricolore non è mai mancato nelle feste del 25 aprile. Come festa della liberazione, essa non ha mai trascurato il richiamo ai valori nazionali. E’ ovvio che nell’anno dei 150 anni dell’Unità d’Italia una particolare enfasi sia riposta nella riaffermazione dei nessi fra due momenti alti della storia italiana, forse gli unici due della modernità, il Risorgimento e la Resistenza.
Che per molti combattenti del 1943-45 si trattasse di rifare quello che i loro avi avevano compiuto meno di un secolo prima è facile da intuire quando ci trova di trova fronte a sigle come Corpo Volontari della libertà, simile a quella usata da Garibaldi nella terza guerra d’indipendenza, brigate denominate appunto Garibaldi, battaglione Pisacane, Partito di azione, ecc. E a proposito di azionisti come dimenticare che Giuseppe Mazzini trascorse le ultime settimane di vita a Pisa, ospite di un Nathan Rosselli? La definizione di Resistenza come secondo Risorgimento risale dunque alle origini stesse della lotta di liberazione. Negli ultimi tempi è stata ripresa con forza da capi dello Stato come Carlo Azeglio Ciampi e Giorgio Napolitano.
E’ però vero che la storia non si ripete. Ci sono tuttavia avvenimenti che si somigliano, soprattutto se le condizioni in cui maturano sono simili. Ora l’Italia dell’Ottocento era divisa in Stati e staterelli, quasi tutti subalterni al dominio austriaco. Erano inoltre tutti, compreso il Regno di Sardegna fino al ‘48, stati di polizia, in cui spadroneggiava l’arbitrio dispotico del sovrano e dei suoi strumenti di dominio. Dunque il Risorgimento affermò un nuovo Stato unitario, indipendente, con un elementare riconoscimento dei diritti dei «sudditi»: lo Statuto carloalbertino, così ingessato e classista, non è la Costituzione del 1948.
Tuttavia, se si vuole trovare un precedente della nostra carta fondamentale, per il catalogo dei diritti civili e politici si può benissimo risalire indietro di un secolo, alla Costituzione della repubblica romana di Mazzini, Saffi e Armellini, prima in Europa ad abolire la pena di morte per qualsiasi reato, fra le prime ad affermare il suffragio universale e la laicità delle istituzioni.
Anche all’Italia dell’8 settembre 1943 mancavano unità, indipendenza e libertà. Nella parte occupata dai tedeschi non vi era solo l’asservimento allo straniero, ma l’esercizio più brutale della violenza e la restaurazione del già caduto regime fascista. Questo stato di cose durò appena venti mesi, ma anche il Risorgimento, inquadrabile fra il 1848 e il 1870, ebbe un biennio di accelerazione (1859-1861) che portò appunto alla proclamazione del Regno d’Italia. Conobbe decenni preparatori (i moti degli anni ’20 e ’30), paragonabili alla lunga stagione dell’antifascismo clandestino.
Fra Risorgimento e Resistenza intercorre quasi un secolo, quello della nascita in Europa della società di massa. I caduti cuneesi del Risorgimento sono 750, quelli del periodo 1943-1945 sono dieci volte tanto. I primi sono tutti militari, nella stragrande maggioranza soldati dell’esercito regio (il volontariato garibaldino per ovvie ragioni incise poco in Piemonte). I venti mesi della guerra «in casa» videro morire duemila partigiani, duemila cinquecento civili, mentre fra i militari seicento si consumavano nei lager tedeschi. E’ il prezzo pesante che le masse pagano per il divenire protagoniste della storia. Il dato non è meramente quantitativo, cambia anche la composizione sociale dei combattenti, Gli operai, presenti nel Risorgimento solo con le sollevazioni delle grandi città quali Milano, diventano il nerbo delle formazioni partigiane. I contadini, almeno quelli del Nord, forniscono cibo e riparo agli sbandati dell’8 settembre o alle bande. Le donne, combattenti o staffette, ammontano a migliaia, nulla di paragonabile alle isolate individualità delle eroine risorgimentali.
I cattolici, estranei con poche eccezioni (Gioberti, Manzoni) al Risorgimento (la Chiesa, arroccata in difesa del potere temporale, predica il non expedit, mentre nel 1943 comincia a prendere le distanze da un regime fascista con cui, non senza momenti di frizione, ha collaborato per vent’anni), hanno il loro posto nella lotta di liberazione. Saranno loro ad esprimere la forza politica moderata che beneficerà maggiormente del consenso elettorale post bellico. Anche nel Risorgimento i combattenti garibaldini o mazziniani, dopo i sacrifici della lotta, furono messi da parte a vantaggio dei moderati cavouriani, sicuramente più laici dei democristiani nelle materie civili, ma meno sensibili ai temi dell’equità sociale.
L’allontanamento delle sinistre dal governo dopo il 1947 fu un atto dettato dalla divisione del mondo nei due blocchi della Nato e del Patto di Varsavia, l’emarginazione del movimento democratico e repubblicano risorgimentale fu invece una scelta tutta interna al blocco sociale di proprietari terrieri e borghesia, stretti attorno ai Savoia e alla casta militare. In questo contesto l’idea romantica di nazione, decisiva per le lotte di indipendenza, non tardò a degenerare in nazionalismo, cioè in velleità di sopraffazione su altre nazioni, aprendo la strada all’autoritarismo crispino e al fascismo. Non era questo lo spirito che animava i carbonari del ’21, i cospiratori degli anni ’30 o i seguaci di Garibaldi e Mazzini.
Dopo il fallimento dei moti di marzo Santorre di Santarosa va a morire per la libertà della Grecia, Bianco di Saint Jorioz, autore di un profetico Trattato sulla guerra per bande, va a combattere in difesa del governo repubblicano spagnolo, come faranno nel 1936 gli antifascisti contro il golpe franchista con il battaglione Garibaldi. Viceversa esuli polacchi e ungheresi combatterono con le camicie rosse o si arruolarono nell’esercito piemontese.
Sempre nel nome dell’Eroe dei due mondi dopo l’8 settembre i soldati italiani dei Balcani si unirono ai partigiani yugoslavi o albanesi. Viceversa nelle nostre regioni troviamo maquisards francesi, partigiani yugoslavi o russi. Tanto il Risorgimento quanto la Resistenza ebbero una dimensione europea, se non internazionale.

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